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Una dottoressa specializzata in ginecologia e ostetricia, oggi 48 enne, di una città della Svizzera romanda di medie dimensioni, si ricorda come lo stress legato all'avvio dello studio ha rischiato di mandare in pezzi la sua allora giovane famiglia:
La compagna di un medico di 48 anni, morto in circostanze tragiche sotto l’influenza di farmaci, racconta:
Quando io stessa mi ammalai gravemente, lui mi sostenne con amore e mi motivò a sottopormi alla terapia prevista. La sua dipendenza pareva essere scomparsa e trascorremmo uno dei periodi più belli. Dopo che mi fui ripresa un po’, fu lui questa volta a crollare e ad isolarsi. Decidemmo, comunque, di sottoporci insieme a una psicoterapia per imparare ad affrontare la mia malattia. Al primo appuntamento mi presentai da sola. Spiegai al terapeuta tutte le esperienze vissute con i problemi legati alla dipendenza del mio compagno. Dopo la seduta, più forte e animata da molto coraggio, tornai a casa. Ora sapevo chiaramente che non poteva andare avanti così e che doveva succedere qualcosa. Disgraziatamente era troppo tardi. Quello stesso giorno, lui morì...
Una donna medico di cinquant’anni, che lavora in uno studio medico collettivo e che si occupa da sola di sua figlia, parla delle sue esperienze con ReMed.
Una situazione privata difficile, durante la quale per di più mia figlia ebbe un grave incidente, mi fece perdere l’equilibrio.Ero depressa, non riuscivo più a dormire, in una confusione disperata non ero più in grado di venire a capo dei miei appuntamenti sia a livello professionale che privato.Improvvisamente non si trovavano più le cartelle cliniche dei miei pazienti e i rapporti si accatastavano.Avevo perso anche il controllo delle finanze.
Un medico d’ospedale di 44 anni, sposato, tre figli, racconta della grave depressione da lui vissuta.
«La depressione mi ha colpito improvvisamente, nel giro di pochi giorni – non mi era mai successa una cosa del genere. Da due anni dirigevo il reparto di traumatologia di un ospedale relativamente grande. Lavoravo da solo, senza capoclinica, o assistenti dipendenti direttamente da me - 24 ore 24, senza ferie. Lo facevo per un profondo senso di responsabilità, ero fiero di svolgere il mio lavoro in modo competente e coscienzioso.
E improvvisamente mi sentii proprio male, in un modo che non posso descrivere con delle parole. Era un ripiegamento involontario in me stesso: non guardavo più negli occhi i miei pazienti, volevo liberarmene al più presto – e questo si rifletteva anche nelle mie decisioni terapeutiche. All’inizio pensavo che questo mio comportamento fosse causato da una mancanza di sonno, ma poi capii: si tratta di qualcos’altro, qualcosa di più grave. Telefonai subito a un collega che conoscevo e presi appuntamento con lui. Ma l’incontro non mi servì molto, anzi non mi sentivo considerato come paziente.
Mia moglie, invece, ha reagito meravigliosamente bene: ha capito subito che cosa stava succedendo e ha chiamato il mio ex capo. Questi, senza indugiare, procurò una capoclinica, che come sostituta mi alleviò il lavoro. Il mio ex capo mi fu di vero sostegno. Mi accompagnò durante tutta la crisi, mi fece visita regolarmente – proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento. Non mi sono ancora ripreso dalla mia depressione. Ma oggi so che potrei rivolgermi in qualsiasi momento a ReMed per chiedere un ulteriore sostegno.»
Un medico-assistente deve affrontare un decesso che lo opprime molto. Ancora dopo molti anni il ricordo di quella notte gli provoca un senso di angoscia.
«Ero di servizio di notte, ero da solo responsabile di 150 pazienti - il capoclinica aveva già lasciato l’ospedale. Improvvisamente una telefonata dell’infermiere di turno: un paziente cardiopatico grave è immobile per terra. Corro immediatamente nella camera del malato. Ciò nonostante posso soltanto costatare il decesso del paziente. Molto colpito, provo subito un senso di colpa. Forse non ho fatto quello che avrei dovuto? Avrei dovuto sorvegliare ancora meglio il paziente? Ho fatto un errore? Naturalmente so perfettamente che un paziente in questo stato critico può morire, ma al momento questo non mi serve a niente.
La mattina seguente spiego quello che è successo durante la riunione di rapporto, e chiedo se ho preso una decisione sbagliata. Il mio superiore dichiara semplicemente che delle cose del genere succedono. Personalmente non mi si interpella mai sull’accaduto.
Dopo questo avvenimento sono stato veramente male: soffrivo di rimorsi di coscienza e avevo paura di me stesso come medico. Di notte non riuscivo a dormire, di giorno mi era difficile concentrarmi e soffrivo di sudorazione eccessiva.Se avessi potuto, avrei lasciato immediatamente la mia professione.
Contemporaneamente ero anche furente che avessero lasciato da solo un principiante come me. In una situazione del genere, come medico, si ha veramente bisogno di essere sostenuti, con una guida premurosa ma chiara da parte dei superiori. Un’analisi per determinare se c’era stato un errore mi avrebbe sollevato – anche se fosse risultato che non avevo valutato correttamente la situazione. Per me sarebbe stato chiaro e avrei potuto imparare dall’accaduto. In queste situazioni i medici devono avere la possibilità di elaborare l’accaduto. Utili in questo caso sono naturalmente delle istanze adeguate direttamente negli ospedali. Estremamente importante sono però anche degli interlocutori esterni – come oggi, per esempio, ReMed.»
Un medico di famiglia di 59 anni, con uno studio di gruppo in una cittadina e padre di due figli adulti, parla della sua depressione.
«È stato un colpo duro: dopo 22 anni di matrimonio mia moglie mi ha comunicato che amava un altro e che voleva separarsi. Sono precipitato in una profonda crisi. Naturalmente la mia professione occupava molto posto nella mia vita – ma anche mia moglie aveva il suo giro. Per molto tempo era andato tutto bene per noi, adesso all’improvviso non era più così.
Retrospettivamente so che ci siamo allontanati l’uno dall’altro. Mia moglie mi rinfacciò che dopo il suo grave incidente stradale non ero stato lì per lei – ed è vero, ma allora non me ne ero reso conto. Dolorosa è stata soprattutto la reazione dei nostri figli. Per settimane non ci hanno più parlato, e ancora oggi non riescono a capirci. E questo per quanto come genitori abbiamo funzionato bene – anzi continuiamo a funzionare bene ancora oggi. La situazione era insopportabile: me ne sono andato di casa al più presto e ho divorziato.
Come ho fatto a uscire dalla crisi? Per fortuna non avevo remore nei confronti della psichiatria. Già in passato – in occasione di una fase leggermente depressiva – mi ero rivolto a dei professionisti in cerca di aiuto. E anche questa volta mi sono rivolto a uno specialista che mi conosceva già. È ho informato subito anche la mia collega dello studio. Tutti e due mi hanno aiutato senza immischiarsi – e questo è stato molto utile. Un sostegno importante mi è stato dato anche dai miei amici e dalla chiara struttura della giornata nella mia professione.
In questo modo sono riuscito a superare la mia crisi esistenziale, senza che il mio lavoro di medico di famiglia ne sia venuto a soffrire. Ad altri colleghi nella mia stessa situazione non posso fare altro che consigliare di cercare rapidamente un aiuto professionale. Oggi possono rivolgersi anche a ReMed.»
Un medico di famiglia, sposato, attraversa una profonda crisi a 51 anni. Soltanto ora si rende conto che anche le proprie necessità personali sono importanti.
«Primo esaurimento nervoso come medico assistente in Argentina: la lontananza da casa e un carico di lavoro fino a 108 ore alla settimana lasciano i loro segni. A 40 anni una profonda crisi sul senso della vita: questo è proprio tutto quello che la vita mi offre? Il mio studio medico di montagna con l’impegnativo ed intenso servizio di pronto soccorso durante la stagione invernale?
Voglio avere più tempo per me, mi compro un violoncello e inizio a esercitarmi. Ma contemporaneamente mi metto in politica e mi assumo un incarico. In questo modo il carico di lavoro aumenta ulteriormente – sei anni più tardi la grande crisi: inizio a rimbrottare i miei pazienti per dei nonnulla. Le notti solitarie in montagna diventano un grande peso, mi mancano mia moglie e i bambini che vivono giù a valle. Dopo gli interventi di pronto soccorso di notte, non riesco più ad addormentarmi. Bevo sempre di più, fumo molto e aumento notevolmente di peso. Per finire anche il cuore non funziona più come dovrebbe: aritmie. Finalmente mi rendo conto che così non si può più andare avanti!
Cambio completamente il ritmo della mia giornata e mi preoccupo del mio benessere: inizio a lavorare più tardi, pratico regolarmente un’attività sportiva, mi nutro in modo sano. Finito con il fumo e l’alcool. Riesco a vendere il mio studio medico e a tornare a valle – con un posto a tempo parziale in uno studio di gruppo. Ben presto sto di nuovo molto bene. Se già quando ero giovane medico avessi preso sul serio le mie necessità personali e avessi potuto usufruire di una rete di sostegno come ReMed!»
Un medico generalista con un suo studio cade in modo del tutto inatteso in una crisi.
«Lei non sta bene», mi disse una paziente dopo avermi salutato, come se lei non avesse nessuna preoccupazione. E un altro paziente si cercò un nuovo medico, perché gli sembrava che io non fossi più in grado di assumere carichi supplementari. Così evidente era la crisi in cui mi trovavo da qualche tempo. Che cosa era successo? Un viaggio da un amico che aveva perso la moglie in seguito a un incidente stradale e che si era venuto a trovare da solo con due bambine, mi aveva molto colpito. Durante una visita di un museo in sua compagnia la crisi mi piovve improvvisamente addosso: affanno, batticuore, claustrofobia. Dovetti uscire immediatamente dall’edificio. Mia moglie e il mio amico erano perplessi quanto lo ero io stesso.
Tornato a casa, con le mie ultime energie mi occupavo dei miei pazienti e dei miei interventi come medico distrettuale, andavo alle riunioni. Come la mia sensibile paziente aveva notato, la sua malattia – e non si trattava di un’eccezione – mi procurava un timore panico. In famiglia evitavo tutti i miei obblighi. Rinunciavo a vedere i miei amici e il solo trillo del telefono mi procurava il batticuore e mi faceva sudare. La situazione era così grave che ben presto mi rivolsi ad un aiuto professionale.
Uscire dalla crisi è stato lungo e faticoso. Ho ristrutturato la mia giornata in modo diverso, ho lasciato perdere degli incarichi e mi sono creato dei momenti liberi. Poco alla volta ho imparato che non sono indispensabile e che non posso soddisfare tutte le esigenze. Alla fin dei fatti la crisi ha avuto un effetto positivo su tutti i settori della mia vita, in particolar modo nella vita di copia e in famiglia.
Un medico di famiglia di 55 anni, che ha uno studio con un collega e che è medico responsabile in una casa per anziani medicalizzata, parla delle proprie esperienze personali: oltre al grande carico professionale, il padre di una famiglia patchwork di otto persone è colpito da paure esistenziali.
«Il mio stato di crescente sfinimento si era manifestato già da tempo: mettevo da parte libri non letti, diventavo sempre più smemorato, facevo errori e bevevo anche di più. Superficialmente sembravo funzionare bene. Ma la mia assistente di studio mi faceva notare sempre più spesso degli errori. La cosa mi spaventò. E il fatto che le storie dei miei pazienti improvvisamente non mi interessassero più, mi colpì duramente nella mia identità di medico. Come padre di famiglia ero inoltre colpito da paure esistenziali non motivate. Iniziai a speculare in borsa, non potevo più fare a meno di seguire tutta la notte l’andamento dei corsi.
Uscire dalla crisi non è stato facile. Capii che era giunto il momento di fare una pausa – e che avevo bisogno di un aiuto professionale. Lo trovai rivolgendomi al mio medico di famiglia. Il collega del mio studio si occupò temporaneamente dei miei pazienti in modo che ebbi nuovamente tempo per me. Poco per volta maturò l’idea che dopo 20 anni era giunto il momento di lasciare il mio studio medico e ridurre così in modo radicale la mole di lavoro. Continuai la mia attività nella casa per anziani perché lì mi sentivo bene: gli orari di lavoro sono regolati chiaramente, la collaborazione con persone giovani è arricchente. Oggi mi godo il tempo che ho a disposizione e sto bene. Decisivo è stato il fatto di aver riconosciuto la mia crisi e di averne parlato anche nel mio circolo di qualità.»
Il primo passo
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